Rocaille Guide: Roma liberty

GUIDA ROCAILLE DI ROMA LIBERTY

Come per altre città d’Italia (Palermo, PescaraMilano) e del mondo (PragaTbilisi) sono andata alla ricerca di quei “frammentati e disordinati barbagli dell’epoca felice” che possano in qualche modo far rivivere l’atmosfera della Belle Epoque della capitale.
Tracciare un percorso alla ricerca del liberty in una città come Roma è quasi impossibile. Ho scelto così 10 luoghi pubblici e facilmente visitabili come quartieri, musei, parchi e chiese, con l’eccezione di un hotel e due istituti. Ho volutamente lasciato fuori case private o edifici che di liberty hanno solo la facciata (come il Teatro Ambra Jovinelli o l’Ex Stabilimento della Birra Peroni), poiché in questo modo l’elenco sarebbe risultato infinito. 

C’è da notare che il liberty, linguaggio di espressione della società borghese, a Roma assunse una declinazione particolare. Una vera e propria borghesia imprenditoriale si svilupperà solo a partire dalla nomina della città come capitale nel 1871, mancando così la committenza per lo sviluppo di un linguaggio liberty di tipo europeo-continentale (per intenderci la linea floreale francese o quella belga, così come quella inglese che riflette sui problemi di design). Il liberty italiano, in particolar modo romano, prende le mosse dalla tradizione dell’arte italiana, quindi rinascimentale, interpretata dal revival preraffaellita, dando vita a linguaggi storicistici-eclettici (Beltrami, Coppedè; in pittura Sartorio) in un tessuto urbano antico e poco incline alla modernità. 

Trovate tutte le altre Guide Rocaille –> Qui 

1. CASINA DELLE CIVETTE a Villa Torlonia 
Via Nomentana, 70
museivillatorlonia.it

La Casina delle Civette è solo uno degli edifici all’interno del parco di Villa Torlonia, che comprende anche il Casino Nobile, il Casino dei Principi, un teatro, una limonaia e una serra in stile moresco. Dal 1925 e fine al 1943 la villa fu abitata da Mussolini e dalla sua famiglia, che aveva a disposizione tutte le strutture tranne la Casina delle Civette, residenza di Giovanni Torlonia Junior fino al 1938, anno della sua morte.

La casina nacque come luogo di evasione rispetto all’ufficialità della residenza principale. Collocata ai bordi del parco e nascosta da una collinetta artificiale, è il risultato di una serie di trasformazioni e aggiunte apportate alla ottocentesca Capanna Svizzera, ideata nel 1840 da Giuseppe Jappelli su commissione del principe Alessandro Torlonia. A quel tempo si presentava come un manufatto rustico di sapore alpestre, con paramenti esterni a bugne di tufo ed interni dipinti a tempera ad imitazione di rocce e tavolati di legno.
Dal 1908 la Capanna Svizzera cominciò a subire una progressiva e radicale trasformazione per volere del nipote di Alessandro, Giovanni Torlonia Jr, assumendo l’aspetto e la denominazione di “Villaggio Medioevale”: il piccolo edificio divenne una raffinata residenza con grandi finestre, loggette, porticati, torrette con decorazioni a maioliche e vetrate colorate. Dal 1916 cominciò ad essere chiamato “Villino delle Civette” per la presenza nella vetrata di due civette stilizzate tra tralci d’edera, eseguita da Duilio Cambellotti già nel 1914, e per il ricorrere quasi ossessivo del tema della civetta nelle decorazioni e nel mobilio, voluto dal principe Giovanni, uomo scontroso e amante dei simboli esoterici.

Gli spazi interni, disposti su due livelli, sono tutti particolarmente curati nelle opere di finitura; molti artisti lavorarono all’impianto decorativo di questa stravagante villetta, che può a tutti gli effetti essere definita la fucina del liberty romano. Oltre a Duilio Cambellotti, maestro dell’art nouveau italiana, vi lavorò l’architetto Vincenzo Fasolo, che nel 1917 aggiunse le strutture del fronte meridionale della Casina, elaborando un fantasioso apparato decorativo in stile Liberty. Le vetrate vengono tutte installate tra il 1908 e il 1930 e costituiscono un “unicum” nel panorama artistico internazionale, prodotte tutte dal laboratorio di Cesare Picchiarini (1871-1943), iniziatore del rinascimento dell’arte vetraria, su disegni di Duilio Cambellotti (1876-1960), Paolo Paschetto (1885-1963), Umberto Botazzi (1865-1932) e Vittorio Grassi (1878-1958). 
L’illuminazione del complesso era affidata a varie lampade in ferro battuto, rette da altrettanti bracci dal disegno elaborato, che racchiudevano le iniziali del principe, GT (Giovanni Torlonia), mentre le stanze avevano bei lampadari con decori zoomorfi o vegetali. Al pianterreno della Casina ben tre stanze erano riccamente decorate con boiseries: la Sala da pranzo, il Fumoir e la Stanza delle Civette. Nel villino troviamo anche elaborate maioliche fornite dalle ditte Richard Ginori, Cantagalli e Villeroy e Bosch, come risulta dai libri mastri dell’Archivio Torlonia.  

La distruzione dell’edificio iniziò nel 1944, con l’occupazione delle truppe anglo-americane e durata oltre tre anni. Quando nel 1978 il Comune di Roma acquisì la Villa, sia gli edifici sia il parco erano in condizioni disastrose; inoltre l’incendio del 1991 ha aggravato le condizioni di degrado della Casina, unitamente a furti e vandalismi.
L’immagine odierna della Casina delle Civette è il risultato di un lungo, paziente e meticoloso lavoro di restauro, eseguito dal 1992 al 1997. Da non tralasciare la bellissima serra moresca, progettata da Giuseppe Jappelli (lo stesso architetto del Caffè Pedrocchi di Padova) e unico edificio moresco di Roma, i cui restaurati sono terminati nel 2017 ma ad oggi rimane ancora inspiegabilmente chiusa. 

Fonti:
www.museivillatorlonia.it/it/casina_delle_civette
repubblica.it 

Ho parlato di Villa Torlonia qui e della Casina delle Civette qui

la vista dal bagno della Casina delle Civette

2. GALLERIA SCIARRA
Via Marco Minghetti, 10
aperta dal lunedì al venerdì, dalle ore 9 alle 18:30

Tutti i turisti che vengono a Roma si accalcano davanti Fontana di Trevi, ma proprio a due passi nessuno arriva a scoprire la bellissima galleria del Palazzo Sciarra Colonna, il gioiello liberty della capitale. Si tratta di un passaggio pedonale coperto, per l’esattezza un cortile privato ma aperto al pubblico negli orari d’ufficio (la troverete chiusa la sera e il fine settimana). La sua costruzione fu voluta dal principe Maffeo Barberini-Colonna di Sciarra, protagonista della vita politico-mondana della Roma umbertina, editore di giornali e committente di attività immobiliari e fondiare. Secondo il suo progetto la galleria avrebbe collegato vari spazi delle sue proprietà e fu affidato all’architetto Giulio De Angelis, particolarmente attento all’uso della ghisa nelle nuove costruzioni e autore infatti anche de La Rinascente a largo Chigi.

La galleria, realizzata tra il 1885 e il 1888, segue lo stile delle grandi gallerie europee: la copertura a volta è realizzata in ferro e vetro, unico esempio a Roma. Le pareti interne invece sono decorate da Giuseppe Cellini, un pittore che collaborò come illustratore alla Cronaca bizantina, un giornale diretto dal 1881 al 1885 da Angelo Sommaruga e poi da Gabriele d’Annunzio. Cellini faceva parte del gruppo “In arte libertas” e aveva partecipato all’editio picta di Isaotta Guttadauro, una raccolta di poesie di d’Annunzio il cui scopo era quello creare un volume illustrato che rinnovasse, in chiave moderna, l’antico connubio fra illustrazione e testo, seguendo l’idea di William Morris e di Burne Jones.

Per la Galleria Sciarra, l’opera più famosa di Cellini, l’artista crea un programma iconografico che esalta le virtù tradizionali della donna, distribuito su una inquadratura geometrica di tipo rinascimentale. Nel registro superiore scrive le didascalie: “Benigna”, “Domina”, “Amabilis”, “Misericors”, “Iusta”, “Prudens”; nel registro inferiore racconta la vicenda familiare della donna: fanciulla, sposa e madre durante alcuni momenti della vita (La Cura del Giardino, Il Pranzo Domestico, L’esercizio Musicale, Le Opere di Carità, La Toletta e La Conversazione Galante). Queste donne eleganti sono un omaggio a Carolina Colonna Sciarra, madre del principe Maffeo, come dimostra l’acronimo (CSS, le iniziali del suo nome) ricamato su uno scudo sui vani d’ingresso della galleria, accanto allo stemma della famiglia. Pare che in una delle scene sia stato ritratto anche Gabriele d’Annunzio. 

io a Galleria Sciarra

3. QUARTIERE COPPEDE’
Piazza Mincio e dintorni

Il complesso di edifici che si trova attorno a Piazza Mincio, oggi noto come quartiere Coppedè, è l’unico quartiere realizzato dall’architetto da cui prende il nome. Gino Coppedè (1866-1927) aveva studiato architettura a Firenze, dove era nato, e si formò al laboratorio del padre, intagliatore del legno. Anche suo fratello Adolfo si dedicò all’architettura, ma Gino sviluppò sin da subito un linguaggio compositivo personale e nuovo, lo “stile Coppedè”. Il primo incarico importante fu la progettazione e la realizzazione del Castello MacKenzie a Genova (mura di San Bartolomeo, Genova, 1897-1905): è qui che si forma lo stile che poi distinguerà tutti i suoi edifici, una mistione di caratteri ora gotici, ora quattrocenteschi, ora cinquecenteschi e manieristi, che avevano larga parte nella cultura e nel gusto italiano del tempo, senza prescindere dalla contemporaneità degli stilemi liberty e quelli art-déco. Coppedè si occupa non solo della parte architettonica ma studia anche nei minimi particolari ogni elemento dell’arredo, secondo l’idea ottocentesca dell’opera d’arte totale. Questo fantastico pastiche ai limiti del kitsch si può propriamente far rientrare nella corrente di eclettismo storicista, in cui Coppedè crea un linguaggio sui generis e inconfondibile.

Nel 1913 è già affermato quando viene nominato architetto della Società anonima edilizia moderna per eseguire il progetto di un nuovo quartiere alle spalle di piazza Quadrata (oggi piazza Buenos Aires) a Roma. Secondo la prima progettazione, che risale al 1915, il nuovo quartiere doveva comprendere palazzi destinati ai ceti medio-alti, secondo la tipologia che aveva già impiegato a Genova. Dopo la guerra però, mutate le condizioni economiche, si decise di privilegiare una tipologia ancor più signorile, più esclusiva e più rappresentativa. Il Palazzo degli ambasciatori, terminato nel 1921, costituisce con l’arcone su via Dora, l’ingresso monumentale al quartiere: questo imponente arco, affiancato da due torri, è decorato con fregi, stucchi, cornicioni, mascheroni, balaustre, statue e logge; un enorme lampadario in ferro battuto pende da sotto l’arco mentre sopra la torre di destra si ammira un’edicola sacra che ospita una Madonna con Bambino. Su uno dei due pilastri l’architetto ha posto la sua firma.
Al centro della piazza c’è la Fontana delle Rane, quattro nella conca inferiore e altre otto in quella superiore; ad osservare bene si distingue anche un’ape, omaggio alla fontana Barberini. Fra il 1920 e il 1924 vennero progettati i villini circostanti, i più belli e decorati. Tra questi il Villino delle Fate è il più appariscente, con dipinti sulla facciata che raffigurano Firenze con la scritta “FIORENZA BELLA” e i ritratti di Petrarca e Dante. Il Palazzo del Ragno inneggia al lavoro, tramite la decorazione raffigurante un cavaliere con la scritta «Labor» e il simbolo del ragno, che lavora la sua tela. Il grande ingresso del Palazzo “Ospes Salve”, decorato nell’atrio da figure di ramarri, è una fedele riproduzione di una scenografia del film di Giovanni Pastrone Cabiria (1914), alla cui sceneggiatura collaborò anche Gabriele D’Annunzio. 

Per il suo fascino da fiaba il quartiere è stato scelto molte volte come luogo da film: il regista Richard Donner vi ambientò le sequenze iniziali del film Il presagio (1976); Francesco Barilli vi ambienta l’horror Il profumo della signora in nero (1974) e Mario Bava vi gira alcune scene di La ragazza che sapeva troppo (1963). Sarà Dario Argento a renderlo famoso, scegliendolo per alcune scene dei film Inferno (1980) e L’uccello dalle piume di cristallo (1970). Argento ama particolarmente l’architettura liberty, in cui riconosce un senso di mistero: indimenticabile è la scelta di Villa Scott a Torino per il suo film più conosciuto Profondo Rosso (1975).

il Villino delle Fate del Quartiere Coppedè

4. MUSEO HENDRIK ANDERSEN
Via Pasquale Stanislao Mancini, 20
Orari post Covid19: sabato e domenica 9.30 – 19.30 (solo piano terra)
Sito: www.facebook.com/hendrikchristianandersen

La villetta in stile liberty neo-rinascimentale fu costruita tra il 1922-25, secondo un progetto dello stesso Hendrik Andersen, che volle dedicarla a sua madre Helene. Al piano terra si trova lo studio dell’artista e al primo piano l’abitazione vera e propria, con tanto di terrazza su Roma. Nel 1935 la villa fu ampliata di un intero piano decorato all’esterno da una fascia di pitture allegoriche neo-rinascimentali, tutt’oggi visibili.

Lo scultore visse per circa quaranta anni in questa casa e alla sua morte, avvenuta nel 1940, la donò alla città di Roma. Villa Helene sul Lungotevere, che costituì il luogo di studio e di creazione dell’artista, oggi è visitabile e ci permette di vedere più di 200 statue, di cui alcune in bronzo e altre in gesso, oltre che i disegni e le pitture di Andreas, il fratello di Hendrik morto prematuramente.
Sostenuto da sua cognata Olivia Cushing, Hendrik aveva iniziato a lavorare ad un progetto utopistico chiamato “World City”, una città ideale con tanto di Centro Scientifico, Olimpico e Artistico e con al centro la grande Fontana della Vita, per la quale Andersen aveva già iniziato a scolpire molte statue, oggi al museo.

Ho dedicato un intero articolo alla casa museo di Hendrik Andersen qui.
Delle case museo di Roma invece ho parlato qui

io al primo piano del museo Hendrik Andersen. Ph: Rocchina del Priore

5. MUSEO BONCOMPAGNI LUDOVISI
Via Boncompagni, 18
direzionemuseistataliroma.beniculturali.it

L’edificio in stile eclettico, che oggi ospita il museo, fu costruito agli inizi del XX secolo come residenza della Principessa Blanceflor Boncompagni Ludovisi de Bild, di origine svedese ma nata a Siena nel 1891, figlia del barone Carl Bildt e di Alexandra, nata Keiller. Il suo ritratto, dipinto da Philip Laszlo, accoglie i visitatori nella grande sala del primo piano. 

Il villino fu edificato tra il 1901 e il 1903 dall’architetto Giovanni Battista Giovenale (1849 – 1934) e poi modificato nel 1932 dal principe Andrea e dalla moglie Alice Blanceflor de Bildt. Giovenale propone nell’edificio gli stilemi di un sobrio barocchetto, con concessioni ad un gusto più esuberante, di ispirazione rococò, soprattutto negli apparati decorativi, come nelle cornici delle finestre e nel portale su via Boncompagni, ispirato a quelli degli hôtel particulier parigini. All’interno è da segnalare il salone con volta a padiglione e pareti dipinte a tempera, rappresentanti i viali ed i giardini della scomparsa Villa Ludovisi. L’ampio giardino ospita alcune specie arboree ad alto fusto, tra cui magnolie e palme, ed una dependance per il personale di servizio.
Il villino fu creato per la famiglia dei principi Boncompagni Ludovisi su un’ampia presella, all’angolo tra via Boncompagni e via Quintino Sella, già di proprietà della famiglia in quanto facente parte della villa Ludovisi, lottizzata a partire dal 1883, uno dei più grandi scandali della Roma umbertina. 

Nel 1972, con disposizione testamentaria, l’edificio fu donato dalla principessa Blanceflor de Bildt Boncompagni allo Stato italiano, perché lo mantenesse e lo usasse “esclusivamente per scopi artistico-culturali di pubblica utilità”. Il museo è stato aperto al pubblico nel 1995; dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo ha gestito tramite il Polo museale del Lazio e dal dicembre 2019 attraverso la Direzione Musei statali di Roma. Oggi è l’unico museo di Roma dedicato alle arti decorative, al costume e alla moda italiane. La visita offre l’occasione di rivivere l’atmosfera dei primi del Novecento perché la collezione d’arte, con opere firmate Arturo Noci, Enrico Lionne, Giacomo Balla, Galileo Chini, Duilio Cambellotti, Giorgio De Chirico, si trova disposta tra gli arredi, ceramiche ed oggetti originali del villino. Sono inoltre esposti abiti di alta moda francese e italiana dagli anni venti fino alla fine degli anni quaranta, per arrivare all’epoca moderna (Fausto Sarli, Fernanda Gattinoni, Valentino, Roberto Capucci, Raffaella Curiel, Lorenzo Riva, Renato Balestra, Mila Schön, Marella Ferrera, André Laug e Angelo Litrico). Nel 1996, a questo patrimonio si è aggiunto l’importante Fondo di abiti appartenuti a Palma Bucarelli (1910-1998), la direttrice della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma dal 1941 al 1975. 

Fonte:
touringclub.it
la Principessa Alice Blanceflor de Bildt nel salone

6. VILLINO XIMENES
Via Bartolomeo Eustachio, 2
(E’ sede dell’Istituto Teresiano, che non so se e quando permette le visite)

Sconosciuto ai più, anche perché privato, il Villino Ximenes è uno stupendo esempio di liberty italiano che nulla ha da invidiare all’art nouveau francese. Fu fatto costruire da Ettore Ximenes (1855 – 1956), scultore di origine siciliana che volle una residenza e uno studio a Roma, dove spesso si trovava per lavoro.
Nella piena maturità di un affermato percorso professionale, salutato già da importanti riconoscimenti come la vittoria all’Esposizione di Torino del 1890 e la partecipazione alla prima Biennale di Venezia del 1895, Ximenes nel 1902 affidò all’architetto Leonardo Paterna Baldizzi il progetto dell’edificio, di cui curò personalmente l’articolato apparato decorativo esterno ed interno.

La sala da pranzo è l’ambiente più bello del villino, rimasto completo del mobilio originale. Ricorda per certi versi la boutique del gioielliere Georges Fouquet di Mucha (conservata al Musée Carnevalet di Parigi), dove anche lì il pavone è utilizzato come modulo decorativo. Molto bello anche il salone, con un motivo di crisantemi in stucco sull’arco che divide a metà la stanza. Le pitture parietali, invece, mostrano una raffigurazione dei grandi maestri della scultura come Gian Lorenzo Bernini, Donatello intento a scolpire il San Giorgio, papa Urbano VIII, il Cardinale Mazzarino e un busto di Luigi XIV Re di Francia. 

Abitato non continuativamente dall’artista, impegnato in numerosi e prestigiosi incarichi a Roma e anche nel resto dell’Italia e all’estero (suo è il Monumento a Verdi nella città di Parma e il Monumento a Alessandro II a Kiev), dopo la sua morte il villino conobbe una stagione meno felice (la vendita, il progressivo degrado, le alterazioni) seguita da impegnativi interventi di restauro degli esterni, conclusi nel 1999. Purtroppo un’importante modifica è stata apportata al lato sinistro dell’edificio, sede dell’atelier di Ximenes denominato “Galleria delle Statue”, che recava due grandi e bellissimi pilastri sagomati con figure femminili, oggi del tutto scomparsi.

Ho dedicato un intero articolo al Villino Ximenes qui

particolare della sala da pranzo del Villino Ximenes 

7. HOTEL LOCARNO
Via della Penna, 22
www.hotellocarno.com

Nel 1925 una famiglia di origine svizzera fonda questo hotel a due passi da Piazza del Popolo e lo chiama Hotel Locarno, in ricordo della propria città natale. Il famoso poster locandina, diventato logo dell’Hotel e appeso nell’atrio d’ingresso, venne realizzato dal famoso illustratore del cinema muto Anselmo Ballester. Durante la guerra fu occupato dai nazisti, ma riuscì a continuare la sua attività. Dagli anni ’60 in poi l’hotel divenne il punto ritrovo della Dolce Vita e di una ricca e vivace comunità di artisti che animavano il quartiere. Stiamo parlando della “Scuola di Piazza del Popolo”, artisti che frequentavano le gallerie limitrofe di Via dell’Oca, la galleria di Pino de Martis e la galleria “L’attico” di Sargentini. Tra gli habitué del Locarno vi erano, tra gli altri, Federico Fellini e Giulietta Masina, che amavano intrattenersi davanti al camino, e Alberto Moravia ed Elsa Morante, che abitavano nella stessa via.

Negli anni ’70 lo acquista Maria Teresa Celli, che decide di rinnovare l’hotel riportando in vita lo spirito degli année folles degli anni ’20. Inoltre acquista, da una nobile famiglia veneziana, il secondo palazzo storico risalente al 1905, di cui è oggi composta la struttura. All’epoca era frequentato da Basquiat e Borges ma nel corso degli anni, l’hotel è stato il set per film e performance teatrali, ambientazione di romanzi e fonte di ispirazione per scrittori ed artisti. Tra tutti ricordiamo il film di Bernad Weber, la pièce di Victor Cavallo, i libri di Alain Elkann e António Mega Ferreira. Ospiti dell’hotel sono stati Lucia Bosè, Tina Aumont, Annie Girardot e poi Michel Piccoli e Bernard Herzog e recentemente anche Willem Dafoe, John Malkovich, Wes Anderson, Isabella Rossellini e Toni Servillo, mentre girava “La grande bellezza”.

Oggi è l’unico hotel liberty al centro di Roma: le luci soffuse, l’arredamento sofisticato, gli antichi oggetti esposti, la terrazza panoramica, il meraviglioso dehor aperto tutto l’anno, il salotto con il camino e l’accogliente bar in stile fin de siècle, lo rendono uno dei luoghi più eleganti della città. 

io nella sala del camino dell’Hotel Locarno

8. VILLA BLANC
Via Nomentana, 216
attuale sede della LUISS, per visite: www.luiss.it/studenti/attivita-culturali/visite-guidate

Siamo abituati a vedere moltissimi monumenti o edifici artistici, soprattutto di epoca ottocentesca, decadere fino alla distruzione. Quello di Villa Blanc è un caso eccezionale: un ente privato ha scelto di accollarsi il peso del restauro di questa enorme villa ottocentesca in piena decadenza per farne la sua sede. Una scelta non scontata e che ha permesso di restituirla all’uso della città. 
Siamo di fronte ad una dimora alto borghese di fine ottocento: nel 1893 il barone Alberto Blanc, senatore del Regno d’Italia e anche ministro degli Esteri, acquistò una vigna sulla via Nomentana, facendone ristrutturare gli edifici per farne la sua dimora. La villa comprendeva un “casino per delizie” di 10 vani, fatto costruire dal precedente proprietario, e un enorme parco. 

Il progetto della villa è a firma dell’ingegnere piemontese Francesco Mora e dell’architetto Giacomo Boni, che sperimentò tecniche nuove di lavorazione dei materiali tradizionali quali il ferro, la ghisa, il legno, la ceramica, il marmo, il granito e il cuoio. Ne venne fuori una villa enorme (circa 2.700 m²), conclusa nel 1897, a pianta cruciforme irregolare, sormontata da un campanile di impronta romanica con una ringhiera di ferro battuto ricca di dettagli. Lo spazio più bello è sicuramente la sala da ballo, retta da una serie di colonne in ghisa che racchiudono le vetrate e una volta a cupolette ottagonali dipinte e decorate.
La sala da pranzo ha il soffitto a cassettoni, le pareti percorse da un rameggio di stucchi ed è ornata da un camino in marmo tardo quattrocentesco, proveniente dal mercato antiquario.
Il giardino d’inverno, con voltine metalliche, viene considerato il più grande d’Europa e per il suo allestimento sono stati fatti arrivare dalla città olandese di Haarlem 10.000 bulbi di tulipano, oltre a lillà e rose-azalee. La villa ha al suo interno una scala a chiocciola in ghisa, rivestita in legno, che collega i suoi diversi piani.
Alla decorazione della villa partecipò tutto l’ambiente artistico della Roma di fine secolo, lo stesso cioè che orbitava intorno alla Cronaca bizantina di Galleria Sciarra (e di cui ho parlato qui). Tra gli artisti si ricorda Alessandro Morani, che per Giacomo Boni fa un uso innovativo di materiali e tecniche tradizionali quali il vetro colorato, la ceramica e il mosaico; Adolfo De Carolis, che realizza presso le fabbriche toscane Ginori, le terrecotte invetriate con motivi floreali. Alle decorazioni si sono applicati anche il già citato Giuseppe Cellini e Guido Calori. 

Il barone non sopravvisse a lungo dopo il completamento della ristrutturazione e morì nel 1904. La proprietà della villa e del parco passarono prima alla moglie Natalia e poi, nel 1927, ai quattro figli Gian Alberto, Margherita, Mario e Giulio. Dopo la guerra la proprietà passa di mano in mano, iniziando così un periodo di degrado fino all’incuria. Inoltre, nonostante già nel 1922 era stata sottoposta al “vincolo di importante interesse artistico”, nel 1950 la villa ed il parco circostante vengono acquistati dalla Società Generale Immobiliare, che nel 1954 ottiene la rimozione del vincolo posto, ma mantiene il vincolo paesaggistico apposto nel 1953. La villa diventa oggetto di una serie di vicende non proprio pulite, prima della Società Generale Immobiliare e poi, negli anni ’90, dallo stesso Ministero per i beni culturali e ambientali. Finalmente nel 1997 viene acquistata dalla LUISS che nel 2011 avvia la ristrutturazione della villa e del parco, per un valore di 25 milioni di euro la cui conclusione, inizialmente prevista alla fine del 2016, avviene a inizio 2017. 

Fonti: 
luiss.it
repubblica.it

9. MOSAICI DI EDWARD BURNE JONES a San Paolo dentro le mura
Via Nazionale, 16a
www.stpaulsrome.it

Inaspettato è sapere che a Roma c’è un’opera preraffaellita di Edward Burne Jones, non un dipinto peraltro, ma un unicum nella sua produzione artistica: un mosaico. 

La grande opera musiva gli fu commissionata in seguito alla costruzione della nuova chiesa protestante a Roma, un edificio in stile romanico progettato dall’architetto inglese George Street tra il 1872 e il 1876, vagamente ispirato alla chiesa di San Zeno a Verona. Infatti soltanto in seguito all’indipendenza di Roma dallo stato Pontificio e la trasformazione in capitale nel 1871, il nuovo governo italiano consentiva, per la prima volta nella storia, alla comunità inglese-protestante di poter costruire una chiesa all’interno delle mura. Per la decorazione degli interni fu scelto lo stesso architetto Street, che si occupò del disegno delle mattonelle e delle inferriate, Clayton e Bell delle vetrate e Burne Jones per i mosaici. 

Il lavoro, iniziato nel 1881, lo occupò a fasi alterne per oltre diciassette anni e fino alla morte, avvenuta nel 1898, lasciando la decorazione incompleta. L’artista visse abbastanza per vedere tre dei suoi disegni realizzati in mosaico, ma solo tramite fotografia: Burne Jones infatti non venne mai a Roma. Disegnava i cartoni a Londra, poi li spediva a Venezia dove si realizzavano le tessere da mosaico sotto la supervisione del suo assistente Thomas Rooke.

Entrati in chiesa bisogna passare sotto due archi, decorati con due scene a mosaico, prima di arrivare a quello absidale. Nel primo arco è raffigurata l’Annunciazione: una scena essenziale con le figure della vergine e dell’angelo in un deserto desolato; nel secondo arco è raffigurato l’Albero della vita, in cui i motivi vegetali dell’albero e floreali del giglio rivelano in maniera evidente il tratto preraffaellita. Infine, nell’abside, c’è il Cristo Redentore seduto in trono circondato da cherubini. Secondo il progetto originario Burne Jones aveva previsto nella controfacciata un’altra grande scena con Lucifero, che però non fu realizzato a causa della sua morte. L’opera fu completata basandosi sui suoi schizzi, in particolare la decorazione della volta raffigura un conciliabolo di Santi in Paradiso, con le fisionomie di vari personaggi del tempo come Abramo Lincoln in veste di sant’Andrea, Giuseppe Garibaldi in quelle di San Giacomo mentre il generale Grant, protagonista della guerra di Secessione Americana, si pone a interprete di San Patrizio.  

mosaico con l’Albero della vita

10. SINAGOGA
Lungotevere de’ Cenci
museoebraico.roma.it

L’edificio fu costruito dopo la demolizione del ghetto, compiuta all’indomani del piano regolatore della capitale entrato in vigore nel 1888. Infatti, solo dopo l’indipendenza di Roma dallo stato Pontificio e la trasformazione in capitale, gli ebrei furono equiparati nei diritti civili agli altri cittadini ed ebbero così la possibilità di costruire il loro tempio.

Nel 1889 fu indetto un concorso per il progetto e fu scelto quello dell’ingegner Attilio Muggia e dell’ingegner Vincenzo Costa in coppia con l’architetto Osvaldo Armanni. Il Tempio Maggiore è in stile eclettico con influenze che vanno dalla tradizione greca a quella assira. L’interno è dipinto finemente da Domenico Bruschi e Annibale Brugnoli con dei motivi geometrici e floreali, in osservanza al divieto biblico di raffigurazioni umane. La cupola è dipinta con i colori dell’iride, intervallati da palme e alberi di cedro, il resto dei soffitti è dipinto con dei cieli stellati. L’illuminazione è affidata a vetrate policrome all’altezza dei matronei, sostenuti da colonne portanti, in stile greco con influenze Liberty realizzate da Cesare Picchiarini (lo stesso della Casina delle Civette). In corrispondenza dei matronei al livello inferiore si aprono delle navate che conservano antichi arredi marmorei del XVI e del XVII secolo provenienti dalle Cinque Scole, l’edificio di culto dell’antico ghetto prima della costruzione del Tempio Maggiore. 

Da non trascurare, proprio di fronte alla Sinagoga il Villino Astengo, con decorazioni delle quattro “Virtù” dipinte negli angoli superiori delle facciate ad opera del pittore Giuseppe Zina. 

Fonte:
www.archidiap.com

1.Casina delle Civette:
(più foto della Casina delle Civette qui e di Villa Torlonia qui

la serra moresca di Villa Torlonia

2. Galleria Sciarra:

3. Quartiere Coppedè:

4. Museo Hendrik Andersen:
(più foto nel mio articolo dedicato al museo qui )

6. Villino Ximenes:
(più foto nel mio articolo dedicato al Villino qui)

7. Hotel Locarno:

8. Villa Blanc:
(fonte foto: arttribune; repubblica.it; luiss)

10. Sinagoga:
(fonte foto www.archidiap.com)


Aesthete. Art historian & blogger. Content creator and storyteller. Fond of real and virtual wunderkammer. Founder and main author of rocaille.it.

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2 Commenti a “Rocaille Guide: Roma liberty”

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