Minuetto all’inferno, Elémire Zolla

 

“In quanto al regno dello spirito, egli lo immaginava come sovrapposto alla terra,
ma senza che dalla terra vi penetrasse mai nulla,
eccetto i profumi, la pietà, la corruzione, la malinconia, e i gatti”.

(Jean Santeuil, Marcel Proust)

Non so a chi potrà interessare questo articolo se ammettiamo che Zolla non è proprio tra le letture più popolari e ancora meno lo è il suo primo romanzo, oggi tra l’altro introvabile.

Elémire Zolla nacque a Torino e “Minuetto all’Inferno” fu il suo primo scritto, composto quando era ancora giovanissimo e quasi in punto di morte per la tubercolosi, tra il 1951-52. Si snodano sullo sfondo di una cupa Torino anni ’30 personaggi amorali, strani, dal fondo oscuro. Compaiono una fattucchiera, una coppia lesbica, un timido rampollo col padre uxoricida, matrimoni di calcolo, cocaina, orge da salotto, morti accidentali, malattia, suicidi, omicidi, aborti. Che cosa aveva in mente il ventiseienne Zolla, lo stesso che diventerà di lì a poco pacatissimo saggista, nel raccontare una storia così?

A ben vedere “Minuetto all’inferno” potrebbe considerarsi come prodromo letterario di quello che sarà il suo primo e discusso saggio “Eclissi dell’intellettuale” del ’59. Una fine analisi e lucida critica della società di massa come trionfo del conformismo dei gusti tramite un’industria culturale che soffoca la cultura di libero pensiero e costringe l’intellettuale all’oblio. “Minuetto all’Inferno” racconta proprio questo tramite i suoi personaggi, la fine di un mondo non perfetto ma almeno libero con l’impercettibile ammissione che il male è comunque meglio del banale. Fabio Camilletti ce lo presenta inaugurando così una nuova rubrica del blog dedicata alla letteratura nera.

Minuetto all’Inferno

Nel 1956 i carri armati sovietici invadono Budapest; a Palermo, un aristocratico che non ha mai pubblicato nulla (alla domanda di un giornalista sulla sua professione, due anni prima, aveva risposto candidamente “Il principe”) mette la parola fine a uno strambo romanzo, formalmente una microstoria che si snoda fra la spedizione dei Mille e l’Italia umbertina, in realtà la pietra tombale del neorealismo; a Torino Elémire Zolla pubblica Minuetto all’inferno. Tre eventi slegati, naturalmente, ma che contribuiscono – ciascuno a suo modo – allo sgretolarsi di una delle equazioni più inconsistenti mai concepite da mente umana, quella tra realismo, impegno civile e organicità al Partito Comunista. Non che tale equazione sarebbe mai veramente morta: vero e proprio nosferatu, anzi, essa avrebbe continuato a riproporsi ciclicamente, come una larva senza pace. Ma sempre – da quel momento in poi – col tono fasullo e sordo del princisbecco.

Per la laboriosa gestazione del romanzo – e per i sussulti che questo causò in casa Einaudi – c’è la densa introduzione di Grazia Marchianò alla ristampa del 2004, l’ultima in ordine di tempo, per Nino Aragno. Elio Vittorini, ancora a ridosso della cantonata del Dottor Zivago – e di quella, se è per questo, de Il gattopardo – dà per l’occasione il peggio di sé. Lo pubblichiamo, scrive a Calvino già nel ’53, “purché poi lo si possa presentare per la vecchia letteratura che è”; un romanzo “cupamente fantasticante”, informa Carlo Fruttero pochi mesi dopo, “un incubo puramente libresco”, “un libro […] brutto e arcaico, presuntuoso e inattuale, cervellotico e ingiustificato”; e quando poi, infine, il romanzo esce, è Vittorini in persona a presentarlo ai lettori in questi termini:

[C’]è un intero filone di letteratura che mi riesce inesplicabile: quello in cui si avverte, deliberata, l’azione speculativa dell’intelletto, come quando vediamo, a una radioscopia, il bario percorrere i visceri che vuol rivelarci. Specie poi se si tratta della sottospecie che ama sataneggiare io precipito in uno stato di allergia […]. Così ora non so, francamente, che cosa valga questo romanzo “satanico” di Elémire Zolla. Mi ricorda da un lato il Pavese più torbido, e da un altro la narrativa “mitteleuropea” del patriota triestino Silvio Benco […]. Ma è solo cervellotico o libresco? O ha, in qualche modo, una sua validità realistica, una sua storicità, per oggi? Nel dubbio lascio che sia il pubblico a giudicare.

Al di là dell’opinabile gusto dell’evocare Pavese in termini negativi a cadavere – tutto sommato – ancora caldo, la presentazione di Vittorini ha le sue nobili ascendenze: quella diffidenza verso “l’azione speculativa dell’intelletto”, con l’infelice immagine del mezzo di contrasto, discende in maniera diretta (non importa quanto conscia) dal manifesto letterario del ventenne Leopardi, che della stessa, asettica primazia della ragione, e delle medesime tentazioni sataniche, aveva accusato i romantici milanesi. È leopardiana – dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, del 1818 – l’idea che debba fuggirsi in primo luogo l’azione dell’intelletto, il quale, non appena il cuore palpita, “corre tosto a ricercargli e frugargli tutti i segreti di questo palpito”; e che, ugualmente, l’indulgere alla “tenebra” – “[gli] spettri del Bürger e [le] befane del Southey” – sia segno di una grossolanità, al fondo, di spirito, quintessenzialmente aliena alla misura e alla “convenienza” italiche. Solo che Leopardi, ai romantici milanesi, opponeva una sfida ben più impegnativa: ritornare alle radici del páthos greco, a quella meraviglia venata di tragedia di cui alcuni suoi tardivi lettori, come Nietzsche e Michaelstaedter (entrambi, guarda caso, mitteleuropei), avrebbero compreso la disperata essenza. Niente di tutto ciò in Vittorini, che nell’auspicare “validità realistica” e “storicità” suona solo vetusto, e vetusto già per il 1956: come se poi a Zolla – che quando il romanzo esce ha trent’anni, non ha pubblicato quasi nulla ma si appresta a dare alle stampe Eclissi dell’intellettuale, e svelarsi sulla scena letteraria come finissimo saggista – della storicità e della validità realistica, per non dire del giudizio di Vittorini tout court, importasse poi davvero qualcosa.

Su un punto, però, Vittorini aveva ragione. La peculiarità di Minuetto all’inferno sta precisamente nel rifiuto, reciso e inappellabile, di considerare logore le convenzioni del romanzo decadente. Il narratore di Zolla è onnisciente, scandaglia la psiche dei personaggi, è prezioso nel linguaggio e tortuoso nella sintassi; e tanto il neorealismo aveva spostato la macchina da presa verso il basso, verso l’orizzontalità – i piani sequenza, l’illusione della presa diretta, la narrazione sconnessa che Gilles Deleuze ci ha insegnato a vedere – quanto la prospettiva di Minuetto è piramidale, dal cielo alla terra, verticale e divina (o satanica). Non è solo una questione – per parafrasare Pitigrilli – di scrivere un romanzo in cui i personaggi non si chiamano compare Tonio e mamma Rosa, fanno uso di acqua di colonia e non si soffiano il naso con le dita: è una scelta strutturale e ideologica, il rigetto (come l’avrebbe chiamato lo stesso Zolla, il teorico stavolta) di qualsiasi tentazione alla divinizzazione della miseria, all’illusione che il reale possa darsi solo dal basso e nel basso, come se il resto – i tappeti persiani e la poesia occitana, i Padri del deserto e Thomas Mann, “i profumi, la pietà, la corruzione, la malinconia e i gatti” – fosse solo bruma e illusione. Elémire Zolla, figlio di Vincenzo Venanzio Zolla e Blanche Smith, rifiuta di rinnegare il garbo e le lezioni di pianoforte in casa come peccati originali: e, come Tomasi di Lampedusa, erige un piccolo monumento alla sua classe d’origine – nel suo caso, l’alta borghesia – perché non sa, né certamente vuole, parlare d’altro.

Minuetto all’inferno è anzitutto questo, un’elegia a un mondo che sta sparendo, se possibile ancora più violenta di Che cos’è la tradizione? Quest’ultimo libro, del 1971, era nato – lo dichiara lo stesso Zolla – come risposta all’infatuazione, cieca e inspiegabile, che l’intellighenzia europea e statunitense aveva nutrito per la rivoluzione culturale della Cina maoista: mentre i templi venivano rasi al suolo e i docenti universitari costretti a dar di vanga – e mentre i classici cinesi e i dipinti su seta finivano arsi dalle fiamme – l’Occidente s’era cupamente innamorato di quell’iconoclastia feroce e di quel moralismo bassamente egualitario, nutrito di volgarità e di odio per ogni forma di erudizione e cultura. E di un analogo trionfo della grettezza – l’Italia fascista – parla Minuetto: un mondo in cui “la vita in comune” – questo impara Lotario Copardo, uno dei protagonisti, al ginnasio – “non può che essere disgustosa”, un universo dominato da un’incomprensibile ossessione per il sesso, dalla volgarità dei presidi e dalla vigliaccheria (fenomeno mai domo) dei docenti di educazione fisica. “Il ‘professore’ di ginnastica” – e si prega di notare la scelta squisita di porne la qualifica tra virgolette – “odiava Lotario, dopo averlo sorpreso a parlar latino per ischerzo con un compagno: – Quella faccia di strutto parli come gli ha insegnato sua madre, e si ricordi che è una testa di cavolo come tutti gli altri! – aveva bofonchiato. […] Risero di cuore i compagni lieti di trovar sfogo tutt’insieme per il conformismo, la crudeltà, e la sguaiataggine. Rise di cuore il professore d’italiano, che da tempo ammoniva di ‘pensare come tutti gli altri invece di cercar sempre di far colpo’”.

Minuetto all’inferno è un romanzo intriso di gnosi, al limite del più ortodosso catarismo: e dell’idea che il mondo, il reale, la materia non siano altro che la creazione di un volgare demiurgo, e che qualunque concessione alla naturalità, alla spontaneità, al “corpo” e all’istinto non nasconda, al fondo, che “lo squallore o il pathos”. “Detesto la gente superba”, dichiara nel Prologo in cielo il “dittatore”, Dio: “voglio che tutti si sentano fratelli, camerati o compagni. […] Guardali, i miei, […] vieni a guardarli”, dichiara a Satana indicando gli angeli: “bei giovani, abbronzati, forti: si sentono solidali fra di loro al punto di non aver più una mente separata da quella dei compagni, godono senza pensieri dell’acqua che li avvolge e sostiene, del sole che li permea tutti, godono dei loro corpi e dei loro muscoli”. E a Satana – un Satana dal pizzetto profumato, intento a leggere Bouvard et Pécuchet – “vedere quella barbarie felice” procura solo dolore.

– Vorresti che Edmeo e Lotario diventassero così? Non ci contare… essi sentirebbero nausea a godere della natura a quel modo diretto, ne godono attraverso l’arte […]-

– Disgraziati! Intanto restano insensibili di fronte alla meraviglia delle foreste, dei tramonti che dispenso a piene mani – disse il dittatore con trasporto […].

– Provati a far vedere questa robetta a Lotario o Edmeo: “bello, bello” diranno forse, ma aggiungeranno, “e adesso basta, abbiamo visto”, infatti è solo l’arte che si lascia sezionare, scomporre, ricomporre, analizzare, ed essi preferiranno sempre ai tuoi banali paesaggi un tappeto persiano, del decimo settimo secolo.

Satana era tornato a sedere, il dittatore camminava per diagonale su e giù per la stanza, facendo scricchiolare l’impiantito di legno.

– Ho deciso che così non può durare. Io voglio che quei due imparino l’umiltà. Questa poi di Edmeo che fa a meno del sesso non lo posso chiaramente permettere. Se non sbaglio hai già tentato di perpetrare qualcosa di simile tempo fa. Ah, sì, con gli Albigesi! Non volevano più far l’amore quei delinquenti! E la storia delle donne possedute scolpendole, che era frullata per la mente di Lotario mi ha fatto inorridire. Io, lo sai bene, ammetto la castità solo se è una sofferenza. O se è impotenza. Ma l’astinenza così, perché è comoda e indifferente, no.

– Hai la mania del sesso – disse Satana.

– Io esigo l’umiltà – urlò adirato il dittatore.

Il riferimento agli Albigesi non è, lo si sarà compreso, casuale. Come loro – come quella civiltà effimera, fatta di grazia e di misura – Lotario ed Edmeo vanno à rebours, rifiutando la facile tentazione dell’appagamento immediato in favore di un godimento più raffinato e tortuoso. Jacques Lacan, nel settimo dei seminari, l’avrebbe chiamato amore per via di anamorfosi: come in certi quadri rinascimentali occorre porsi a una certa distanza, e di sbieco, per cogliere in quella che pareva una macchia informe di colore l’immagine, nitida, di un teschio, così il possesso dell’oggetto d’amore può darsi – per alcuni – solo per via obliqua, mediata, al di là e al di fuori di una carnalità di cui, davvero, son capaci tutti. Come in quell’apologo cinese citato da Roland Barthes, e che a Zolla – ne sono certo – sarebbe piaciuto immensamente. A un mandarino accecato d’amore, una cortigiana promise che sarebbe stata sua solo se per cento notti, in silenzio, egli avesse seduto pazientemente sotto la sua finestra. Per novantanove notti il mandarino fece come gli era stato comandato, senza fiatare. Alla centesima prese la sedia sotto il braccio, e se ne andò.

*

La risposta di Lampedusa al giornalista si legge oggi in Operazione Gattopardo, di Maria Gabriella Giannice e Alberto Anile, da poco ristampato da Feltrinelli; la citazione di Pitigrilli è una parafrasi da Cocaina, del 1921; quella sui profumi, la malinconia e i gatti viene dal Jean Santeuil di Marcel Proust, e lo stesso Zolla la pone ad esergo della seconda parte del suo romanzo; l’aneddoto sul mandarino cinese è riportato da Roland Barthes nei Fragments d’un discours amoureux. Ho letto Minuetto all’inferno nell’estate 2004, su un treno diretto a Weimar: questo pezzo è dedicato a quell’agosto.


Fabio Camilletti teaches Italian and Comparative Literature at the University of Warwick. He has published essays and books on Romantic poetry, Gothic and horror fiction, and the uncanny.

Share this Article!

Trackbacks per le News

Contribuisci alla discussione, scrivendo il tuo Commento.