Adolph e Olga de Meyer

 

foto:Adolph and Olga de Meyer leaving from New York, March 1922

Scene da un matrimonio elegante
di Giovanbattista Brambilla, pubblicato in “PRIDE”, gennaio 2013
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All the pictures marked with (*) are from metmuseum.org

Adolph de Meyer, Barone

Il primo vero fotografo di Moda professionista fu il barone Adolph de Meyer, nato a Parigi l’1 settembre 1868 da padre tedesco, ebreo non nobile ma ricchissimo, e madre scozzese di nome Adéle Watson.
Dividendosi, inizialmente, tra Dresda e Londra si trasferì definitivamente in Inghilterra a 27 anni, nel 1895.
Lì aveva già iniziato, da qualche tempo, ad esporre con grande successo in alcuni prestigiosi circoli fotografici i suoi scatti. La cosa lo spinse ad abbandonare totalmente l’iniziale velleità da pittore ritrattista alla Octavius Hill, per dedicarsi alla “nobilitazione” di questo nuovo mezzo espressivo.

Inizialmente usò come pseudonimo il cognome materno Watson, soprattutto per far dimenticare le sue origini ebraiche. Poi, non si sa come, ad un certo punto Meyer si ritrovò ad avere una certa rinomanza nelle cronache mondane. Iniziò a fregiarsi del titolo di “barone”, aggiungendo la particella “de” al cognome tedesco, frequentando assiduamente anche il principe Albert Edward, figlio della regina Vittoria e poi futuro monarca col nome di Edward VII (1841-1910).
Fu proprio costui, si dice, che insistette presso suo cugino il Re di Sassonia per far avere il titolo nobiliare a de Meyer.

Adolph de Meyer, selfportrait, 1930’s

Adolph de Meyer in costume at the Devonshire House Ball, 3 July 1897. Pic from V&A

Il matrimonio con Olga Caracciolo

Fatto sta che nel frattempo de Meyer, grazie alla nobilitazione, poté sposarsi nel 1899 con la principessa Olga Caraccio dei Duchi di Castelluccio, nata a Londra nel 1871 da padre diplomatico italiano e madre franco-portoghese d’alto rango.
Costei, bellissima, elegantissima, coltissima e campionessa di scherma fu, fin dalla più tenera età, la musa di pittori (Boldini, Sargent, Whistler, Blanche, ecc) e scrittori famosi che frequentavano “Villa Olga” a Dieppe, in Normandia.
Lì s’era rifugiata sua madre, che poco dopo la nascita di Olga aveva abbandonato il marito per vivere col principe italo-polacco Stanislas August Luci Poniatowski (1835-1908). Intorno alla villa aleggiava una certa aura di scandalo. Perché a causa delle molte visite, in incognito, del futuro re Edward VII, s’incominciò a sussurrare che Olga fosse figlia illegittima dell’erede al trono. Con l’aggravante che lui stesso ne fosse stato padrino al battesimo.
In realtà Olga era somigliantissima al Poniatowski che ne era il vero padre. Non si riuscì mai a capire se il principe ereditario britannico avesse mire sulla madre o sulla figlia adolescente.

Nel 1892, a Napoli, la 21enne Olga era andata in moglie a Marino Brancaccio dei principi di Triggiano e duchi di Lustra (1852-1920) che lei mollò praticamente dopo la cerimonia in chiesa.
Totalmente lesbica, si prestò benissimo ad un secondo matrimonio di convenienza col nostro barone fotografo de Meyer, anch’egli completamente omosessuale, fondato su complicità reciproca e culto del lusso, bellezza e pettegolezzi mondani.
Un’unione perfetta, totalmente “in bianco”, che durò per trent’anni. Tanto che quella malalingua della scrittrice Violet Trefusis (1894-1972), anche lei lesbica e altra “presunta” figlia di Edward VII, appioppò alla coppia i nomignoli di “Pédéraste et Médisante” (Pederasta e Maldicente), parafrasando il titolo d’una celebre opera lirica. Giusto per ricordare quanto vistosamente checchissima fosse lui, gran consumatore di cachets cilestri per nascondere precoci capelli brizzolati, tanto pettegola e vipera fosse lei.

 Two potraits of Donna Olga Caracciolo, aged 17 by Jacques-Émile Blanche

Olga de Meyer by John Singer Sargent, 1907

left: Olga De Meyer by James Jebusa Shannon; right: Olga by William Bruce Ellis Ranking, 1907

series of photos of Olga and friends at Lido di Venezia by de Meyer (early years of 1900)

Edmondo Nicolis Count of Robilant and Cereaglio; Baroness Olga de Meyer; Lady Ottoline Morrell. Pic by Philip Edward Morrel, August 1908

Olga de Meyer, early years of 1900’s (*)

Olga Reclining in a Wicker Chair in Japan. 1900-1910’s (*)

Baroness Olga de Meyer, 2 dicembre 1921, New York

Olga de Meyer probably at Saint Moritz, 1905 (*)

Olga de Meyer sitting on a porch of a japanese house, 1900’s-1910’s (*)

The de Meyer’s on the Acropolis, 1890’s (*)

Olga with actress Marion Davies at Lido di Venezia, 1925

Il fotografo

Ma l’invidia che circolava intorno alla coppia era davvero moltissima. Specie quando il barone de Meyer, nel 1901, in veste di “Ciambellano di Sassonia” fu ammesso con l’ingioiellatissima moglie nel “recinto Reale” durante la cerimonia d’incoronazione di Edward VII.
Grazie a queste prestigiose ed altolocate conoscenze Adolph de Meyer divenne uno dei fotografi ritrattisti più famosi. Anzi, il più famoso e strapagato al mondo. Paragonato addirittura al pittore James Abbott McNeill Whistler (1843-1903) per raffinatezza dei tratti ed incisività psicologica.Successo ben meritato perché il suo talento era davvero unico. Nel filone della foto “Pittorialista”, usando un obiettivo speciale che sfocava i bordi, rafforzando l’atmosfera eterea con una garza di seta e usando per le stampe viraggi e tonalità delicate. Senza nessun ritocco sul negativo, per un completo trionfo della mente del fotografo sull’aspetto puramente meccanico e materiale del suo lavoro.Con l’attenzione esasperata per i dettagli nei vestiti e arredi, dei controluce, dei riflessi, delle pose studiate con pignoleria al millimetro. Soprattutto per quell’effetto finale d’atmosfera trasognata che tanto differenziava de Meyer dalla fotografia realistica che, sino ad allora, aveva regnato incontrastata nel settore.

Il suo stile meticoloso ben s’adattava anche ad essere usato per le foto di Moda, in quell’epoca d’evoluzione tecnica della foto-litografia a stampa, nelle neonate riviste illustrate del settore.
Il suo trionfo fu riuscire a decidere personalmente indossatrici e abiti da fotografare, oltre ad ogni bibelot , mobili, elementi architettonici o mazzi floreali che dovevano rientrare nella composizione dell’inquadratura. Voleva che tutto fosse perfetto e totalmente di suo gusto. Altrimenti rifiutava il lavoro. Essere fotografati da lui era, oltre che un grande onore, una consacrazione ufficiale nel Gran Mondo.

Self portrait in India, 1900 (*)

Portrait of Baron de Meyer by Gertrude Kasebier, 1903

Count Etienne de Beaumont, 1910 (*)

Comte Etienne de Beaumont, 1923 ca

de Meyer sitting in a japanese house with teapot and cups, 1900s-1910s (*)

Winnaretta

Con l’onnipresente moglie Olga, sua modella preferita, fece viaggi a Costantinopoli, in Egitto e in Cina.
Soprattutto frequentando l’élite parigina. Divenendo intimo di Misia Sert, Jean Cocteau, Coco Chanel e di Diaghilev non gli fu difficile convincere Nijinsky a posare per lui nel 1911. Foto che poi fecero il giro del mondo e resero definitivamente immortale il ballerino.

Fu in quell’ambiente sofisticato che Olga conobbe Winnaretta Singer De Polignac (1865-1943), l’ereditiera USA delle macchine da cucire Singer e ben nota musicomane, nonché mecenate dei più importanti compositori di quei giorni (Ravel, Debussy, Stravinsky, ecc). Le sue amiche la chiamavano “Zia Winnie”. Un donnone volitivo che aveva già fatto molte vittime femminili (tra cui anche la pittrice Romaine Brooks, la pianista Renata Borgatti oltre alla già citata Violet Trefusis) e che aveva contratto, per copertura, un matrimonio con un vecchio gay, guadagnandoci pure il titolo altisonante di duchessa.

on the right: Winnaretta Singer de Polignac, 1926

Nijinsky in L’Après-midi d’un Faune, 1912

Nijinsky in Schéhérazade, 1911

 The Sketch, 26 february 1913 (Great Britain)

La Marchesa Casati

Il barone de Meyer fu molto contento dei continui trasbordi su e giù per il canale della Manica della moglie Olga, tra Londra e Parigi, perché anche lui ne ricevette molti vantaggi e prestigi. Tant’è che fu d’obbligo seguire Zia Winnie anche a Venezia, dove lei occupava d’estate Palazzo Polignac sul Canal Grande.
I coniugi de Meyer, per anni, presero così in affitto Palazzo Balbi-Valier per essergli vicini di casa.
Fu proprio lì, nel 1912, che de Meyer conobbe la marchesa Luisa Casati (1881-1957) e partecipò alle sue leggendarie feste nel vicino Palazzo Venier dei Leoni (oggi Museo Guggenheim).
Con la Casati i coniugi de Meyer condivisero anche la mania per lo spiritismo, chiromanzia e soprattutto l’uso smodato di droghe. Fu a lei che il barone scattò dei ritratti che lo catapultarono ancora più in alto nell’Olimpo di quel mondo.

Un primo piano della Marchesa fece furore, proprio quell’autunno del 1912, in una mostra a New York nella prestigiosa galleria “291”, voluta dall’amico e collega Alfred Stieglitz (1864-1946). Fu subito pubblicato anche in un numero di “Camera Work”, rivista di Stieglitz e organo ufficiale del movimento Photosecession pittorialista, dedicato interamente a de Meyer.
Un critico del prestigioso “International Studio Magazine”, dopo aver visto esposta la foto della Casati, scrisse una recensione che sarebbe riduttivo definire entusiastica:
Di tutti i ritratti di persone, quello della marchesa Casati, oltre a essere la fotografia più notevole della mostra, è forse la migliore fotografia che io abbia mai visto. Questo ritratto cupo e misterioso di una donna dalla spiccata personalità, è pieno di vita e di carattere, una “testimonianza” umana compiuta quanto la migliore tela di Sargent, se non di più, poiché la macchina fotografica ha visto cose che l’occhio umano non vede e le ha fissate con una sicurezza che nemmeno un grande pittore sarebbe riuscito a rappresentare. Sembrano esserci soltanto una massa di capelli neri da cui due occhi scuri e misteriosi si fissano sull’osservatore – questo è tutto, ma la qualità è tale da lasciare la netta impressione di averla conosciuta personalmente.

Luisa Casati, 1912

Fotografo di moda in America

L’andazzo tra Olga e la Polignac durò fino al 1914 quando, a passione spenta e dopo litigi epocali tra le due, i de Meyer dovettero rifugiarsi in USA per via dello scoppio della guerra. Totalmente senza averi, perché tutto fu requisito dal governo britannico in quanto la coppia era di cittadinanza tedesca.
A New York de Meyer divenne il primo fotografo ufficiale di “Vogue” e “Vanity Fair”, scrivendoci anche articoli di cronaca mondana e stile. Non era mai successo che la Condé-Nast avesse messo sotto contratto, in esclusiva, un fotografo.

Ai parties privati del barone, come davanti al suo obiettivo, passò tutta la créme-de-la-créme (anzi, come si diceva all’epoca: le gratin) dell’alta società finanziaria ed artistica americana.
La cosa durò fino al 1921 quando de Meyer passò alla concorrenza, diventando corrispondente da Parigi per “Harpeer’s Bazar”, fino al 1937.
Grazie all’amicizia col pittore, poeta e antropologo Nicolas Roerich (1874-1947), che aveva allestito per Diaghilev “Le Sacre du Printemps” di Stravinsky a Parigi, de Meyer si diede alle pratiche mistico-orientali. Fu così che, dal 1916, i coniugi de Meyer su consiglio di un astrologo avevano mutato nome in Gayne e Mahrah.

Rita de Acosta Lydig, 1913 (*)

Josephine Baker, 1925-26 (*)

Lady Ottoline Morrell, 1912 (*)

Gertrude Vanderbilt Whitney (Mrs. Harry Payne Whitney) 1916 (*)

Vogue, 1919, first issue with de Meyer as a photographer

 

Fine di un’epoca

Di ritorno in Europa i de Meyer ritrovarono tutta la loro celebrità e il prestigio intatti. Anche se Winnaretta Singer era talmente anti-germanica che quando, nei primi anni ’20, li incrociò ad un ballo dei De Beaumont gli urlò dietro schifata “Luridi crucchi!”, lasciando sbigottiti tutti gli invitati.
I nuovi Anni Folli del dopoguerra, i cosidetti Jazz Age, avevano aperto su nuove idee di modernità, con una donna sportiva ed indipendente d’ispirazione americana, vestita con un gusto essenziale e pratico dettato da Chanel o da Jean Patou. La teatralità da vampira, ammantata d’esagerati atteggiamenti tanto satanici quanto macabri, della marchesa Casati era ormai agli sgoccioli. De Meyer stesso s’era subito accorto che mode ed eccessi stavano cambiando. Nel 1922, per l’americano “Harper’s Bazaar”, aveva scritto sorpreso nella sua rubrica “Paris Gossip by a Mere Man:
“(…)Il buon gusto e lo squisito riserbo sono entrati a far parte delle belle arti. L’eccentricità è considerata un crimine ed è invero la più fuori moda delle attività a cui una donna possa indulgere oggigiorno!”
L’anno dopo, in un suo articolo dal titolo “Mlle Chanel tells Baron de Meyer her opinions on good taste”, più che promuovere la stilista francese ne fece una vera consacrazione a livello internazionale. Questo giusto per indicare quanto essere riconosciuta come maître à penser, in fatto di gusto, dal prestigiosissimo barone potesse cambiare totalmente la carriera d’una stilista. Fu davvero una tappa fondamentale per Coco Chanel che lei non dimenticò mai più.

Preziosa testimonianza di questo periodo è dovuta al grande fotografo Cecil Beaton (1904-1980), unico e grande vero erede artistico del baron de Meyer, nel suo libro “Lo specchio della Moda”(1954). Ricordandone il suo primo incontro ebbe modo di scrivere:
Il Barone apportò molte innovazioni alla fotografia, anche se molti fotografi fanatici della tecnica ignorano il suo nome, molto del loro lavoro oggi, sia in studio che al cinema, deriva direttamente da ciò che lui fece per primo. Fu un vero evento per me, alla fine, quando riuscii ad incontrare l’uomo le cui tante foto mi avevano indelebilmente influenzato. Volevo scoprire qual’era il tipo di persona responsabile d’aver creato una tale varietà d’immagini così toccate dal sacro fuoco dell’artista. Ma ahimè, non feci nessuna scoperta. De Meyer irruppe in modo precipitoso sul vialetto della mia piccola casa solitaria nello Wiltshire, all’interno d’una enorme macchina da corsa dipinta di blu. Al suo arrivo, pietre, ghiaia e conigli selvatici schizzarono in ogni direzione. Dentro la vettura, guidata da uno chauffeur in livrea abbinata al colore dell’auto, sedeva il Barone de Meyer , d’alta statura, d’età indefinibile, in una tuta blu brillante e basco dallo stesso colore, idem per i capelli in tinta. I miei bucolici ospiti rimasero alquanto sorpresi da questa apparizione, e devo confessare che mi sentivo anch’io molto imbarazzato dai suoi modi di fare eccessivamente manierati. Temo proprio che il malaugurato non avesse affatto sortito l’ingresso trionfale sperato. Forse era a causa di una totale mancanza di simpatia che, nervosamente, si rifugiava dietro un spaventoso modo di fare artificioso e affettato, parlando con le sopracciglia sollevate e come avesse una prugna in bocca, con una voce stridula identica ad una caricatura da palcoscenico. Ogni parola che pronunciava pareva più imbarazzante di quella precedente. Ridacchiando nervosamente. Io, allarmato che la vicenda fosse così deludente rispetto ciò che avevo sperato, cercai, prima che tutto fosse perduto, di parlargli e dire a quest’uomo come fosse stato il mio dio per anni, instillando nelle sue foto una magia la cui ricetta era stata, a lungo, mia ambizione scoprirla. Mentre espletavo il mio intento, vidi il volto dell’uomo farsi rigido e risentirsi. Avevo fatto qualcosa di sbagliato. Parlare di fotografia, realizzai, fu imperdonabile. Un grosso errore, come se gli avessi chiesto d’infilare la ricetta segreta delle sue foto in una siringa ipodermica. Forse, se mi fossero state date altre opportunità di conoscere questa strana creatura avrei potuto essere in grado di trovare un certo rapporto con lui, per imparare il segreto di cui il nocciolo duro della sua integrità estetica era composto. Ma l’auto blu e i suoi occupanti in tenuta blu presto rotolarono ancora sulla collina, e con loro il segreto molto ben custodito che evitò e sopravvisse al giudizio dei critici per molti anni.
Benché Cecil Beaton continuasse a considerare il barone come “Il Debussy della macchina fotografica”, nei suoi diari privati fu ancora più crudele nel descrivere quell’incontro. Infatti nella pagina relativa, del 30 agosto 1926, annotò deluso:
Adoro le sue foto ma lui è ributtante, come una donna sciocca e affettata. Ondeggiante sui fianchi, gesticolante con le mani e roteante il naso e la bocca, per parlare incessantemente di moda femminile.

Coco Chanel on Harper’s Bazaar, february 1923

Harper’s Bazaar, october 1921

Ina Claire wearing a dress designed by De Meyer, Harper’s Bazaar, jenuary 1922

Harper’s Bazaar, september 1923, ball Comte Etienne de Beaumont

Dress by CHANEL on Harper’s Bazaar, april 1925

Harper’s Bazaar, august 1925

 

Olga de Meyer on Harper’s Bazaar, jenuary 1929

Ancora Venezia

Naturalmente le traversie belliche, nuove mode e conversioni religiose non avevano distolto i de Meyer dalla loro totale dipendenza dalla cocaina. Tant’è che Olga ne morì d’infarto nel 1931, in una clinica austriaca, durante una cura di disintossicazione.
Il barone per lungo tempo rifiutò di lavorare, standosene in casa a disperarsi con addosso una vestaglia variopinta regalatagli dalla moglie.
Per tirarsi su di morale adottò legalmente, come figlio, un giovane amante tedesco 17enne di nome Ernest Frohlich. Sino ad allora fatto passare per “assistente”.
Si dice che anche dopo la morte di Olga, per ricordo, il barone continuò per qualche tempo ad abitare sul Canal Grande.

E’ di quel periodo un aneddoto che vale la pena raccontare. Accadde che un giorno la principessa Violette Murat e il gayssimo cileno Tony de Gandarillas, attraccando con lo yacht in laguna, decisero d’andare a porgere le condoglianze a de Meyer.
Il barone, ligio all’etichetta, li ricevette in abito da lutto, pranzò e poi si ritirò dicendo agli illustri ospiti di disporre dell’abitazione e della servitù a piacimento.
Faceva talmente caldo che la Murat s’afflosciò sul divano del salone mentre il suo amico esclamò: ”Ma guarda…in questo vaso c’è della polvere bianca. Ma com’è terribilmente imprudente il caro de Meyer!”. Data la reputazione della casa non esitarono a pipparsi un pizzico del contenuto per tirarsi su di tono. Ma il barone entrò in quel mentre nel salotto urlando: “Disgraziati, le ceneri della povera Olga!”. In fretta e furia i due rinnovarono le più sentite condoglianze e se ne fuggirono alla chetichella. L’accaduto rimase segreto per un po’ ma poi la storiella, troppo divertente, venne raccontata dalla Murat a un’amica, aggiungendo: “Really ,Tony è un maleducato senza speranza…che mancanza di tatto!”. Da parte sua de Gandarillas replicò: “Credetemi, la cara Violette è sempre così sbadata che, se fosse stato per lei, avrebbe svuotato l’urna prima di rendersene conto!”.

Tony de Ganderillas dressed as a Baroness by Cecil Beaton, My Royal Past book(1939-reprint 1960)

Princess Eugène (Violette) Murat by Berenice Abbott, 1930

Sul viale del tramonto

De Meyer, col “figlio” accanto in atteggiamenti platealmente sempre più equivoci, aveva preso in affitto una lussuosissima villa a Capri nei primi anni ’30. Vi fece talmente scandalo, tra abuso di droghe e varia umanità ai suoi ricevimenti, che la Polizia ne diede immediato ordine d’espulsione dall’isola. I poliziotti fascisti, pare anche malmenandolo e a calci nel sedere, non gli diedero neppure il tempo di fare i bagagli. Sbattendo lui e tutti i suoi famigli dentro una barca a remi diretta verso Napoli.
Vigeva in Italia un generale “ritorno all’ordine”, verso il grigiore conformista e la banalità, ritenuti molto più consoni alla facciata moralistica del Fascismo.
Dopo aver cavalcato da protagonista tutta la Belle Epoque e gli Anni Folli ora stavano subentrando tempi ben più tristi e bui. De Meyer, senza rendersi ben conto della gravità, scivolava lentamente verso l’inesorabile Viale del Tramonto, insieme a tutto il suo mondo e ai suoi prestigiosi amici. La cosa ebbe immediati effetti nefasti sulla lucidità mentale del barone e al di là delle sue conversioni orientali si rese conto d’essere pur sempre un ebreo in pericolo.

Con lo scoppio d’una nuova guerra Gayne de Meyer, ora con i capelli non più tinti di blu e dopo aver volontariamente distrutto tutto il suo archivio fotografico in preda alla depressione, si mise in salvo a Hollywood.
Lì, totalmente superato dalle mode e in declino, vi continuò la sua attività di ritrattista in tono minore.
Continuò a frequentarvi i vecchi amici, ormai reliquie dei tempi d’oro legati al Cinema Muto, conducendo un tenore di vita più modesto e vendendo uno per uno tutti i gioielli della “povera Olga”.
Vi morì nel 1946, dichiarando di non essersi mai ripreso dalla morte della moglie.
A suo “figlio” (che sopravvisse al “padre” non più di 5 anni, cercando a sua volta d’emularne la professione e abusi di droghe) restarono in eredità un’ottantina di stampe fotografiche che de Meyer aveva ritenuto degne di rappresentarlo.
Oltre a molti ritratti di Olga, figurano anche gli scatti più sensazionali della Marchesa Casati. Chiusi dentro ad una valigia, dimenticata in un deposito per trent’anni, furono ritrovati per caso e messi all’asta da Sotheby’s nel 1980.
E fu tutto.


Photographer and photography collector, journalist and researcher, particularly experienced about gay culture, camp and stardom.

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